Sofferenza fetale durante il parto (Cassazione civile, sez. III, 13/06/2023, n.16844).

Lesioni cerebrali al nascituro causate da sofferenza fetale di tipo ipossico-ischemico verificatasi durante il parto.

Vengono convenuti in giudizio davanti al Tribunale di Avellino, i Medici,  le Ostetriche, l’ASL e la Casa di Cura, per chiedere che fosse dichiarata la responsabilità per la grave sofferenza fetale di tipo ipossico-ischemica verificatasi durante il periodo espulsivo del parto, a seguito della quale la nascitura aveva riportato lesioni cerebrali estese e irreversibili con conseguenti gravissimi danni (paralisi cerebrale infantile ad espressione tetraplegica con grave deficit motorio, grave deficit intellettivo e epilessia sintomatica, resistente alla terapia).

A sostegno della loro domanda, deducevano che la grave sofferenza fetale si era verificata per responsabilità del personale sanitario e per carenze strutturali della Casa di Cura. Aggiungevano anche che nel corso del travaglio la Ginecologa di fiducia dell’attrice, e il Medico di turno, non avevano assistito la partoriente, intervenendo solo al momento del parto, che le Ostetriche non avevano rilevato la sofferenza fetale durante il travaglio, che sia i Medici sia le Ostetriche non avevano adottato alcuna tecnica acceleratoria del parto e che gli interventi successivi alla nascita della bambina erano stati inadeguati e approssimativi.

Il Tribunale, sentiti i testi e le parti attrici, disposto l’espletamento di una C.T.U., dichiarava, in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva dell’ASL; accoglieva parzialmente la domanda attorea, dichiarando la responsabilità della Casa di Cura per i danni provocati alla bambina nella misura del 60%, essendo il rimanente 40% dipendente da fattore imprevedibile e inevitabile, e la condannava al pagamento, a titolo di risarcimento di danno non patrimoniale, in favore degli attori, della complessiva somma di Euro 407.268,54 (ottenuta dalla differenza tra la somma di Euro 1.181.953,88 e il massimale pagato dall’Allianz).

La sentenza del Tribunale veniva impugnata in via principale dalla Casa di Cura e in via incidentale dai genitori della bambina.

La Corte d’appello di Napoli,  respingeva tutti i motivi dell’appello principale della Casa di Cura e accoglieva in parte l’appello incidentale. In particolare, la Corte accoglieva il solo motivo di appello incidentale relativo al danno patrimoniale per le spese future da sostenersi in favore della figlia, così condannando la Casa di Cura al pagamento della ulteriore somma di Euro 100.000,00 in favore dei genitori, mentre ha rigettato il motivo di appello incidentale col quale i genitori avevano chiesto anche il risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla perdita, in capo alla loro figlia, della capacità lavorativa specifica. In definitiva la Corte confermava le statuizioni di primo grado in ordine alla sussistenza della responsabilità della Casa di Cura, con esclusione di quella dei Medici e delle Ostetriche.

Secondo quanto era risultato dalla C.T.U., infatti, la grave patologia neurologica, sorta nella fase espulsiva del feto a causa della presenza del giro di funicolo, era stata causata per il 40% dall’arresto cardiocircolatorio, evento imprevedibile, e per il 60% da una carente assistenza rianimatoria ottimale alla nascita, che avrebbe potuto evitare o ridurre il grave danno cerebrale. La presenza, nella struttura, di strumenti di rianimazione non escludeva la responsabilità della Casa di Cura, in quanto non vi era personale medico in grado di adoperarle tempestivamente, e comunque per evitare il danno cerebrale non sarebbe stato sufficiente allertare i medici in regime di reperibilità, ma sarebbe stata necessaria la presenza di medici specialisti in grado di eseguire con immediatezza, in caso di urgenza, la rianimazione neonatale.

Contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli propone ricorso la danneggiata, ormai maggiorenne, in persona della tutrice, con atto affidato a due motivi: con il primo lamenta erronea applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. per avere la Corte d’appello omesso di riconoscere il pregiudizio patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa. La danneggiata deduce di essere affetta da invalidità al 100% dalla nascita e che il Giudice di merito avrebbe dovuto presumere la totale impossibilità di produrre un qualsiasi reddito tramite il suo lavoro. Quindi, sempre secondo la tesi della ricorrente, il danno patrimoniale da lucro cessante certamente sussisterebbe, sia volendo considerare la perdita della capacità lavorativa generica, quanto quella della capacità lavorativa specifica; per cui il solo problema poteva essere quello di stabilire come liquidarlo, problema che la Corte di merito avrebbe potuto facilmente risolvere, in assenza di una prova specifica, assumendo come criterio di calcolo il triplo della pensione sociale.

La censura coglie nel segno in quanto la motivazione della Corte napoletana è errata in diritto, oltre che intrinsecamente contraddittoria.

La sentenza muove da una premessa corretta – e cioè che la danneggiata “ha subito la perdita totale della capacità lavorativa generica” – per poi pervenire ad una conclusione non coerente con la premessa. Si legge, infatti, che “non vi è prova della perdita di una concreta capacità reddituale della minore ovvero di una capacità lavorativa specifica risarcibile, nella specie non configurabile nemmeno in via potenziale e futura, dovendosi escludere che la danneggiata potrà mai intraprendere un’attività lavorativa“.

Tale valutazione, però, non considera che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato in modo unitario come danno alla salute, potendo il Giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto.

Ebbene, in presenza di un soggetto che è divenuto invalido al 100% fin dalla nascita a causa di una malpractice sanitaria, ogni discussione circa la distinzione tra capacità lavorativa generica e specifica e sulla possibile ricomprensione del danno patrimoniale in quello biologico è del tutto fuori luogo.

In altri termini, non ha senso compiere alcuna previsione di quella che potrà essere, in futuro, l’attività lavorativa svolta dalla danneggiata dinanzi ad una persona riconosciuta totalmente e gravemente invalida sin dalla nascita.

Ergo, la totale perdita della capacità lavorativa dovrà essere risarcita a titolo (anche) di danno patrimoniale e non certo soltanto di danno biologico, proprio per il fatto che la vittima non potrà mai svolgere alcuna attività lavorativa in conseguenza del fatto dannoso.

La decisione viene, sul punto, cassata.

OSSERVAZIONI

La Corte di Appello ha errato nel ritenere ricompreso nel danno biologico la compromissione della capacità lavorativa. Ed ancora ha errato nel ritenere non risarcibile tale posta risarcitoria in capo ad un soggetto che si trovi privo di occupazione lavorativa.

A maggior ragione si appalesa errata la decisione di secondo grado laddove la giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni ha riconosciuto il danno futuro, da perdita della capacità lavorativa, a soggetti danneggiati da malpractice sanitaria, con residuati di invalidità del tutto inferiori (25%, 35%, 50%) a quello riconosciuto alla vittima del caso a commento.

E’ del tutto corretta, pertanto, la cassazione della sentenza sul punto. Riguardo la relativa liquidazione, il Giudice del rinvio, come da consolidata giurisprudenza secondo cui “un danno patrimoniale risarcibile può essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza un’occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito, in quanto tale condizione può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente che, proiettandosi appunto per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima”, potrà utilizzare il criterio del triplo della pensione sociale, non avendo la vittima mai goduto di un reddito da lavoro.

Avv. Emanuela Foligno

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