Settemilatrecento neoplasie al seno, 3.600 tumori alla cervice uterina, 20.000 problemi al colon-retto. Sono i casi emersi lo scorso anno grazie agli screening oncologici offerti alle fasce di popolazione a rischio dalla sanità pubblica. Una pratica preventiva che dimostra nei numeri la sua utilità, ma che è ancora ben lontana dal riuscire a raggiungere tutti.

Ad esempio, solo il 42% delle donne tra i 50 e i 69 anni che avrebbe dovuto fare lo screening per il tumore alla mammella si è effettivamente sottoposta agli esami. Se a queste si aggiunge un altro 20% circa che ha effettuato gli esami privatamente, se ne deduce che quasi un 40% di popolazione sta esclusa dai controlli e rischia di ammalarsi.

Situazione analoga per quanto riguarda la cervice uterina: in questo caso – i dati sono sempre relativi al 2014 – a sottoporsi ai controlli è stato il 30% delle aventi diritto, donne tra i 25 e i 64 anni. Anche in questo caso si può stimare che un’alta percentuale di donne faccia il pap test dal proprio ginecologo, ma comunque sono troppo numerose quelle che restano escluse da ogni tipo di esame.

Situazione ancor più preoccupante per il colon-retto, con solo il 29% di aventi diritto (fascia 50-70 anni) che ha effettuato i controlli. Dato reso ancor più preoccupante dalla circostanza che questo tipo di controlli, a differenza di quelli esaminati in precedenza, solo raramente viene effettuato presso strutture private. E anche dalle profonde differenze che si evidenziano tra regione e regione, con i dati più bassi registrati in Puglia (3%) e Calabria (6%).

Complessivamente, gli screening oncologici restano i grandi incompiuti della sanità italiana: un pezzo importante delle politiche di salute pubblica ma non sfondano. E anche se negli anni si vede una lieve, costante, crescita della loro diffusione, le percentuali italiane sono ancora lontanissime da quelle di altri Paesi, specie del Nord Europa.

Tra le ragioni di tutto questo, ci sono da un lato i sistemi sanitari che non sempre riescono a chiamare tutte le persone a rischio. E dall’altro ci sono i cittadini che non si presentano, vuoi per questioni di fiducia, vuoi perché a volte la Asl sbaglia a mandare le lettere di convocazione oppure le invia troppo prima o troppo a ridosso dell’esame, rendendo impossibile la partecipazione.

Dal 2009 gli screening sono entrati nei criteri di valutazione dei lea, i livelli essenziali di assistenza, contribuendo a valutare il funzionamento dei sistemi sanitari regionali con punteggi a seconda della qualità dell’offerta. Questa circostanza ha certamente fatto aumentare l’attenzione verso questo strumento da parte delle Regioni, che restano però ancora lontane da quel 100% di interpellati e da quel 60/70% che porterebbero l’Italia al livello di altri Paesi europei.

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