I familiari del paziente deceduto sostengono la tesi (risalente al periodo 2005-2009 e oggi totalmente superata) che, in un intervento classificato di routine, vi sarebbe inversione degli oneri probatori, spettando al professionista dimostrare che le complicanze stesse siano derivate da un evento imprevisto e imprevedibile sulla base della diligenza qualificata e delle conoscenze scientifiche del momento.

Dopo oltre dieci anni dal consolidamento dell’indirizzo giurisprudenziale inerente la distribuzione degli oneri probatori, viene sostenuta la tesi che negli interventi classificati di routine vi sarebbe inversione degli oneri probatori.

Il caso

Il paziente, nel 2009, si ricoverava nel reparto di cardiochirurgia della struttura sanitaria Villa Maria Cecilia Hospital per sottoporsi a un intervento programmato di installazione di bypass coronarico per coronaropatia ostruttiva; moriva pochi giorni dopo l’intervento.

Le figlie e i nipoti proponevano domanda di risarcimento danni nei confronti della Casa di Cura, denunciando oltre che imperizia e negligenza dei medici, anche la mancanza del consenso informato, avendo il paziente prestato il consenso esclusivamente all’esecuzione di un intervento di routine, non urgente, con rischio medio-basso.

La vicenda giudiziaria

La Casa di Cura chiamava in giudizio la propria assicurazione, Faro Assicurazioni, e tutti i sanitari coinvolti che a loro volta chiamavano in causa le rispettive compagnie di assicurazioni in manleva.

Il Tribunale di Ravenna rigettava la domanda condannando gli attori a rifondere le spese di lite nei confronti della Casa di Cura Villa Maria Cecilia Hospital. Le figlie del paziente proponevano impugnazione dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna che, previa convocazione a chiarimenti del CTU, rigettava il gravame.

Il ricorso in Cassazione

La vicenda approda in Cassazione. Le ricorrenti sostengono che la motivazione della Corte d’appello sia meramente apparente. Sottolineano, infatti, che la sentenza impugnata non ha considerato che si trattava di un intervento classificato di routine, con conseguente inversione dell’onere probatorio. Quindi spetterebbe al professionista, in caso di prestazione professionale medico chirurgica di routine, superare la presunzione secondo la quale le eventuali complicanze si siano verificate per omessa o insufficiente diligenza professionale o per imperizia, essendo a suo carico l’onere di dimostrare che le stesse siano derivate da un evento imprevisto e imprevedibile sulla base della diligenza qualificata che ci si poteva attendere dal medico e sulla base delle conoscenze scientifiche del momento. In sintesi, lamentano che i Giudici di Appello, non rispettando le regole di ripartizione degli oneri probatori, si sarebbero limitati ad escludere la responsabilità dei sanitari affermando che erano insorte complicanze postoperatorie.

La censura non è ammissibile

La censura non è ammissibile (Cassazione Civile, sez. III, 24/04/2024, n.11166). I Giudici di Appello hanno descritto con precisione la vicenda clinica, ovverosia:

“Il paziente si presentava nel marzo 2009 in ospedale per il ricovero, presentava una anamnesi positiva alla ricomparsa di angina da sforzo con test ergometrico positivo ad elevato carico, nonché alcuni fattori di rischio cardiovascolare quali dislipidemia, diabete di tipo secondo ed ipertensione. Si aggiunge che veniva programmato un intervento di rivascolarizzare della funzione miocardica eseguito il 20 marzo 2009, successivamente intervenivano aggravamenti postoperatori della condizione del paziente, tra i quali una sofferenza addominale diffusa e infine l’insorgenza della grave disfunzione multiorgano che porta alla morte”.

I Giudici di secondo grado danno atto che l’intervento svolto era appropriato alle condizioni effettive del paziente risultanti dalla coronografia preoperatoria, che aveva mostrato una “severissima ostruzione del tronco comune dell’albero coronarico con rigurgito ed inversione di flusso all’ostacolo ostiale”, il che rendeva l’intervento di rivascolarizzare indifferibile per poter preservare la vita del paziente.

La consulenza tecnica

La Corte d’Appello ha anche dato atto che il CTU ha ricondotto l’evento letale “alle complicanze post operatorie che possono derivare da ogni intervento cardiochirurgico di rivascolarizzazione miocardica in un paziente delle condizioni generali complesse quali quelle del defunto sessantacinquenne affetto da severa cardiopatia ostruttiva traversale, già portatore di esiti di infarto miocardico a sede inferiore subito tredici anni prima degli eventi, portatore di fattori di rischio vascolare con comparsa di recidiva di angina da sforzo”.
Ha ammesso che il CTU, significativamente, affermava “che l’esecuzione dell’intervento senza attendere un lasso di tempo di cinque giorni dalla sospensione degli anticoagulanti, periodo di sospensione che abitualmente si osserva, era da considerarsi corretta in relazione alle specifiche condizioni del paziente, ricordando che le linee guida sono indicazioni di carattere generale che vanno poi rimodulate in relazione al caso concreto e alle condizioni del singolo paziente. Nel caso di specie, procrastinare l’intervento per un possibile aumento del rischio emorragico non avrebbe comportato dei vantaggi ma esclusivamente dei rischi aggiuntivi. Sulla base di questa approfondita valutazione, ritiene corretta la scelta di intervenire immediatamente, aggiungendo, a riprova della correttezza della scelta medico chirurgica, che il sanguinamento intra e post operatorio fu nella norma e non ebbe alcuna incidenza sulla morte del paziente… i trattamenti sanitari sono stati corretti e l’evento morte non è riconducibile al comportamento dei sanitari”.

Gli oneri probatori sono in capo all’attore

Ciò posto, riguardo alla richiamata categoria delle prestazioni medico chirurgiche di routine, l’affermazione, contenuta in Cass. n. 975 del 2009, secondo la quale in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica di un intervento di routine, l’attore è dispensato dal fornirne la prova del nesso di causalità, è stata superata già da Cass. n. 10743 del 2009 e da tutta la successiva evoluzione giurisprudenziale di legittimità, che colloca in capo all’attore la prova del nesso di causalità materiale tra il fatto e l’evento dannoso.

Questo secondo il principio per cui in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali il nesso di causalità, secondo il criterio del più probabile che non, tra la condotta del professionista e il danno lamentato è in capo all’attore, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua non imputabilità all’agente (Cass. n. 10050 del 2022).

Avv. Emanuela Foligno

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