La paziente chiama in causa la ginecologa che non ha diagnosticato tempestivamente l’endometriosi. La Corte di Appello di Trieste, ribaltando la decisione di primo grado, rigetta la domanda della paziente per mancata prova del nesso causale. La Cassazione conferma la decisione di secondo grado (Cassazione Civile, sez. III, 05/04/2024, n.9182).

La vicenda

Nel 2013 la paziente conveniva in giudizio la ginecologa, affermando di essere stata sua paziente dal 2001 al 2005 e di avere lamentato intensi dolori durante il periodo mestruale e complicazioni ad essi connesse, di essere stata sottoposta ad esami di routine e essere stata rassicurata circa l’inesistenza di patologie particolari. Soltanto nel 2005 il suddetto medico ipotizzava una sospetta endometriosi.

Solo rivolgendosi ad altri specialisti, la paziente accertava la presenza di cisti di endometriosi ormai al quarto stadio in ragione delle quali doveva sottoporsi ad intervento chirurgico.

Il Tribunale accoglieva la domanda dell’attrice discostandosi dalle risultanze della CTU. I giudici, infatti, ponevano a fondamento del proprio convincimento gli esiti della consulenza di parte prodotta dall’attrice. Condannavano, pertanto, la dottoressa a risarcire il danno alla paziente, che quantificava in oltre 270.000 euro.

Come già premesso, la Corte d’Appello invertiva l’esito del giudizio, rigettando la domanda risarcitoria della paziente.

Il giudizio di Appello

Nello specifico, i Giudici di Appello valorizzavano la CTU svolta in primo grado condividendone le conclusioni e affermavano che l’attrice non avesse assolto il proprio onere probatorio, in particolare in merito al nesso causale tra il danno subito e l’inadempimento del medico. I Giudici partono dal presupposto indicato dai CTU secondo cui “le manifestazioni cliniche della endometriosi sono estremamente variabili, sia in termini di presentazione che di decorso, e che non ci sono studi scientifici accreditati che permettano di dedurre a posteriori quale sia stata la velocità di crescita dell’endometriosi e che la stessa può svilupparsi anche al di fuori dell’apparato riproduttore”, traendone la conseguenza della difficoltà di prevedere il decorso della malattia.

Inoltre i Giudici di Appello hanno ritenuto, sempre basandosi sulla CTU svolta in primo grado, che “l’approfondimento strumentale effettuato dalla ginecologa attraverso l’ecografia fosse corretto come esame di primo approccio diagnostico e che i sintomi lamentati dalla paziente – in assenza di ulteriori dettagli – potessero coincidere con quelli di una semplice dismenorrea”, non accertata, neppure a mezzo di presunzioni, la sussistenza della malattia già prima del certificato medico del giugno 2005 che consigliava la risonanza per approfondimento prescrivendo dei farmaci appropriati e non assunti dalla paziente, che preferiva a quel punto rivolgersi ad altro medico.

Il ricorso in Cassazione

La paziente invoca il vaglio della Corte di Cassazione, ma le sue censure sono inammissibili.

In sostanza, oltre alla violazione delle regole inerenti la ripartizione degli oneri probatori, la donna deduce la sottovalutazione, nella formazione del convincimento del Giudice, di alcune circostanze di fatto tempestivamente allegate e quindi la correttezza della valutazione, non sindacabile sotto il profilo del vizio di motivazione.

Secondo la tesi della donna, la paziente, stante il rapporto contrattuale, avrebbe dovuto solamente provare che un tempestivo e diverso intervento medico avrebbe evitato il pregiudizio dalla stessa subito ovvero l’aggravamento della patologia preesistente secondo un criterio probabilistico, onere probatorio che sostiene di aver soddisfatto, avendo documentato la necessità di sottoporsi a vari interventi chirurgici per contenere l’aggravamento dell’endometriosi. Sostiene altresì di aver fornito la prova dell’inadempimento del medico, consistente nella mancanza di una tempestiva, accurata diagnosi in presenza di sintomi tipici e di aver provato il nesso causale tra l’inadempimento e le conseguenze lesive.

Non è provato il nesso causale

Dagli accertamenti svolti nelle sedi di merito, è emerso che la paziente sosteneva di essersi recata frequentemente allo studio della ginecologa e di averle sottoposto con attenzione la sintomatologia dolorosa che le precludeva normali rapporti sessuali e addirittura lo svolgimento delle normali funzioni fisiologiche, mentre la dottoressa sosteneva che si fosse recata da lei con cadenza annuale, con visite routinarie e che i dolori denunciati non presentavano nessuna particolare rilevanza.
A fronte di questa contrapposta ricostruzione dei fatti, il Giudice di primo grado ha fondato il suo convincimento sulle testimonianze, in particolare sulla testimonianza della madre, mentre il Giudice d’appello si è fondato maggiormente sui dati obiettivi forniti dalla CTU, evidenziante che le manifestazioni cliniche della malattia sono estremamente variabili, che non ci sono studi scientifici accreditati che consentano di ricostruire a posteriori quale sia la velocità di crescita dell’endometriosi, che il lamentato dolore, in assenza di altri elementi, non è segnale univoco della patologia.
Su quella base ha ritenuto che non fosse provato il nesso causale tra il comportamento della ginecologa e il conseguimento di una diagnosi precisa ad anni di distanza dall’inizio dei controlli, né la prova del momento esatto dell’insorgere della patologia.

Il ragionamento svolto dai Giudici di Appello è del tutto corretto.

Avv. Emanuela Foligno

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