Corte d’Appello di Palermo e Tribunale di Marsala dichiaravano il conducente del veicolo, colpevole di aver investito un pedone, condannandolo alla condizionale sospesa di anni uno e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno causato alle parti civili costituite.

L’automobilista sostiene, invece, che il decesso del pedone sia avvenuto a causa delle ritardate cure ospedaliere, ma la Cassazione ritiene le doglianze infondate e rigetta il ricorso (Cassazione penale, sez. IV, dep. 19/02/2024, n.7214).

La vicenda

Il conducente del veicolo, percorrendo in retromarcia il piazzale, aveva investito un pedone sulle strisce pedonali con la parte posteriore dell’automobile. In conseguenza dell’urto, la vittima riportava “trauma cranico con doppia frattura parietale sinistra”, che ne determinava un ematoma subdurale ed infine il decesso che sopraggiungeva a 80 giorni.

Il conducente era stato rinviato a giudizio e chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 589, commi 1 e 2, c.p. con colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza delle norme sulla circolazione stradale.

Il Tribunale individuava, in particolare, la colpa nell’avere omesso di valutare la situazione di pericolo derivante dalla presenza di un pedone che si trovava sulle strisce pedonali e nell’avere omesso una manovra di frenata tempestiva e nell’avere condotto il proprio mezzo in retromarcia in strada a senso unico e contrario.

Il ricorso in Cassazione

L’imputato invoca l’intervento della Cassazione deducendo l’omesso riconoscimento dell’insussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato di omicidio stradale, stante l’interruzione del nesso di causalità tra l’azione dell’imputato e l’evento verificatosi, cagionato dalla presenza di una condotta abnorme posta in essere dai sanitari.

Secondo la tesi dell’imputato, non vi sarebbe nesso di causalità del decesso del pedone con le lesioni riportate in occasione del sinistro. La vittima giungeva all’Ospedale e veniva dimessa dopo 4 giorni. In sede di dimissioni veniva consigliata l’effettuazione di una TAC dopo 7-10 giorni. La TAC, che evidenziava tracce di sanguinamento, veniva effettuata solo dopo 40 giorni dalle dimissioni. Ricoverata poi la vittima successivamente all’ospedale, insorgeva una grave sepsi che ne determinava la morte per shock settico e insufficienza respiratoria.
Le avvenute dimissioni, sostiene, non consentono di ritenere sussistente il nesso di causalità tra il sinistro e l’evento morte, che presumibilmente ha contratto l’infezione, che ne ha cagionato la morte, nell’ultimo ricovero avvenuto.

La critica alla decisione d’Appello

L’imputato argomenta diffusamente sul punto e critica la decisione d’Appello laddove viene esclusa l’incidenza nell’evento morte del ritardo di esecuzione della TAC in quanto, come osservato dal Consulente, l’esame TAC evidenziava tracce di sanguinamento recente e quindi non riscontrabile nei tempi più brevi prescritti dai sanitari per la sua esecuzione.
I Giudici avrebbero omesso di valutare e spiegare perché il sanguinamento recente non potesse ricondursi ad una causa diversa dal sinistro e perché le dimissioni avventate, unitamente ai nuovi ricoveri della vittima, ed al notevole lasso di tempo trascorso tra l’incidente e il decesso, non abbiano costituito cause idonee ad interrompere o escludere il nesso causale.

La sepsi sarebbe stata determinata, sempre secondo la tesi dell’imputato, dall’attività dei sanitari, caratterizzata da inerzia e iniziative abnormi, che rendevano necessari ulteriori ricoveri, in quanto l’effettuazione di una TAC tempestiva e una condotta diligente e solerte dei sanitari avrebbero verosimilmente evitato l’ulteriore ricovero e l’insorgenza dell’infezione letale.

Le doglianze vengono considerate infondate e il ricorso viene rigettato.

I fatti sono stati ricostruiti dai Giudici del merito nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità. I testimoni oculari hanno infatti univocamente riferito che l’imputato retrocedeva lungo la strada (in senso opposto rispetto all’unico senso di marcia) così urtando il pedone sulle strisce pedonali che rimaneva incosciente e privo di sensi.

La sentenza impugnata evidenzia, peraltro, che uno dei testimoni godeva di un punto di vista privilegiato, trovandosi a circa tre metri dal luogo, con prospettiva sia sulle strisce dove si trovava il pedone, sia sul veicolo condotto dall’imputato.

Venendo alla censura, in cui l’imputato insiste nell’affermazione per cui l’infezione in questione potrebbe essere dipesa da altre cause rispetto al primigenio ricovero, stante le dimissioni avvenute solo dopo quattro giorni, la presenza di un successivo ricovero ospedaliero in cui la paziente avrebbe potuto contrarre l’infezione, il paventato ritardo nell’esecuzione della TAC, appare tuttavia generica, con questioni proposte senza un adeguato confronto con le valutazioni espresse dalla Corte sulla necessaria natura di un rischio nuovo e incommensurabile quale fattore necessario per l’interruzione del nesso causale e nella specie escluso.

Le motivazioni dei giudici di secondo grado

I Giudici di merito hanno congruamente ed esaustivamente dato contezza della infondatezza di siffatta tesi. Invero, fermo il principio della ed. equivalenza delle cause o della conditio sine qua non (sul quale è imperniata la disciplina normativa del nesso eziologico), la cause sopravvenute in tanto possono giudicarsi atte ad interrompere il nesso di causa con la precedente azione od omissione poste in essere dall’imputato in quanto diano luogo ad una sequenza causale completamente autonoma da quella determinata dall’agente, ovvero ad una linea di sviluppo dell’azione precedente, del tutto autonoma ed imprevedibile, ovvero ancora nel caso in cui si prospetti un processo causale non totalmente avulso da quello antecedente, ma caratterizzato da un percorso completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale ovverosia integrato da un evento che non si verifica se non in fattispecie del tutto imprevedibili, tali non essendo, ad esempio, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, l’eventuale errore del medico.

Le infezioni nosocomiali

Inoltre, proprio con riferimento alle infezioni nosocomiali contratte durante la degenza ospedaliera per la cura di lesioni personali colpose cagionate in occasioni di sinistro, è stato affermato che “… l’infezione contratta dal paziente relativamente alle ferite chirurgiche prodotte dai delicatissimi e plurimi interventi chirurgici resisi necessari a seguito delle gravi lesioni craniche con emorragia meningea subite in conseguenza dell’infortunio… di origine verosimilmente nosocomiale integrano altrettante complicanze nient’affatto eccezionali od anomale né tantomeno di rarissima ed imprevedibile verificazione, trattandosi di eventualità troppo frequentemente verificabili in ambito ospedaliero tanto più in danno di organismi (quale quello dell’infortunato) … significativamente indebolito dalla lunga spedalizzazione e quindi defedato… sicché deve concludersi che conditio sine qua non dell’evento (ovvero prima, ineludibile condizione dell’evento) non poteva che risultare … le omissioni colpose ascritte all’imputato…” (Sez. 4 n. 20654 del 28/05/2012, Poli, n.m.).

Nello specifico degli incidenti stradali è stato chiarito – e nella decisione viene riaffermato – che l’eventuale errore dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l’incidente e la successiva morte del ferito.

Avv. Emanuela Foligno

Leggi anche:

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui