In caso di malattia professionale non tabellata (D.P.R. n. 336 del 1994) grava sul lavoratore la prova della causa di lavoro in termini di ragionevole certezza

Ai fini del riconoscimento della malattia professionale, occorre accertare se l’attività lavorativa svolta ha comportato l’esposizione al rischio dell’agente patogeno che ha determinato la malattia e accertare se l’attore ha contratto la malattia nell’esercizio della lavorazione svolta e, in caso di riposta affermativa, determinare il grado di inabilità secondo parametri che tengano conto della riduzione della capacità lavorativa generica.

La Cassazione ha altresì precisato che qualora la patologia abbia una genesi multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie, essendo impossibile nella maggior parte dei casi ottenere la certezza dell’eziologia, è pur sempre necessario che si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici) idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale (Cass. n. 9057 del 2004; Cass. n. 10097 del 2015; Cass. Ord. n. 13814 del 2017 ;Cass. Ord. n. 8773 del 2018 ).

La vicenda

Nel caso in esame un dirigente medico dell’Asl aveva agito in giudizio lamentando di essere affetto da “disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso lavoro -correlato”; secondo il professionista tale stato patologico era derivato dalle condizioni lavorative, di “costrittività organizzativa”, in cui –  sua detta – era stato costretto ad operare e, più specificamente, da una serie di provvedimenti interni all’ASL che lo avrebbero condotto ad una dequalificazione con graduale ed incessante demansionamento .

Il Tribunale di Salerno (Sezione Lavoro, sentenza n. 258/2020) investito della domanda ha osservato che, quella lamentata dal medico dell’ASL era una patologia psicotica non tabellata ( D.P.R. n. 336 del 1994) e che, in tali casi grava sul lavoratore la prova della causa di lavoro in termini di ragionevole certezza. Ha inoltre precisato, che le malattie ” psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro ” sono state menzionate dal D.M. 14.1.2008 solo perché ricomprese tra quelle per le quali è obbligatoria la denuncia all’organo di vigilanza (Asl di competenza) ai sensi dell’art. 139 del T.U. 1124/65, essendo peraltro state inserite nella Lista II, riservata a quelle la cui origine lavorativa è di limitata probabilità. Perciò, rimane a carico del richiedente la prova dell’origine lavorativa della malattia denunciata.

L’accertamento della malattia professionale

Ebbene, tale prova nel caso di specie, era stata completamente omessa. Il ricorrente aveva infatti, affermato di aver subito, a partire dall’anno 2014, un progressivo demansionamento, ma di tale affermazione non ne aveva fornito prova .

Gli elementi acquisiti non sono stati ritenuti sufficienti neppure a provare il mobbing che come è noto deve consistere in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte di componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Nella specie, è stato chiarito che le forme in cui tale fenomeno si può concretare sono diverse e così sintetizzabili:” a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell’immagine anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa ente od amministrazione”; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore consistenti in discriminazione..”.

Mobbing e discriminazione sul lavoro

A livello normativo, si parla di molestie sul lavoro nella disciplina di rango legislativo e di derivazione comunitaria antidiscriminatoria; infatti la nozione comunitaria di discriminazione recepita in Italia nei decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003 include le molestie e l’ordine di discriminazione a causa dei motivi tipizzati disponendo espressamente che: “:. le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato ed avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo..”.

Aggressioni che, secondo quanto emerso in psicologia, “si possono concretare in un conflitto quotidiano e sistematico che va oltre la normalità, che crea una situazione di disagio nel lavoratore il quale comincia a lavorare meno e ad assentarsi per malattia tanto da divenire inviso a chi gestisce le risorse umane in azienda; fattispecie che culmina nell’isolamento e l’espulsione volontaria o forzata della parte dal ciclo lavorativo”.

A fronte di ciò costituisce opinione comune diffusa, ma sostenuta anche dalla prevalente dottrina giuslavoristica, che non esista alcun diritto del lavoratore alla felicità, né sussista l’obbligo da parte del datore di lavoro di creare un ambiente sereno del tutto avulso dalla conflittualità che è insita in qualsiasi tipo di convivenza; ma è anche vero che a fronte del principio generale della buona fede e correttezza che presiede all’esecuzione di ogni tipo di rapporto obbligatorio, il datore di lavoro non può tollerare né può realizzare forme di ” abuso” del tutto gratuite, non giustificate.

La decisione

Tanto premesso, il Tribunale di Salerno (Sezione Lavoro, sentenza n. 258/2020) ha ritenuto di dover condividere l’opinione di chi ritiene che possano essere stigmatizzate come condotte di mobbing soltanto le fattispecie più gravi e non i meri episodi di inurbanità, scortesia o addirittura maleducazione, occorrendo in tali casi la prova della finalità illecita (analogamente a quanto previsto nell’art. 15 Statuto lavoratori e art. 1345 cod. civ.). Tale indagine- ha aggiunto il Tribunale campano – “non coincide con la ricerca dell’intento persecutorio personale del mobber, né con l’esame dell’aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa), ma piuttosto che la finalità illecita possa essere apprezzata dal giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona ed all’intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta ( monodirezionalità, connotazione emulativa o abusiva, pretestuosità), oltre alla permanenza nel tempo della condotta”.

Ebbene, nel caso di specie, non erano emersi elementi certi sulla sussistenza del nesso di causalità tra le affezioni riscontrate dal ricorrente e l’attività professionale alla luce dei referti delle visite mediche prodotti in giudizio; né il ricorrente aveva indicato in cosa si sarebbe sostanziata la costrittività organizzativa che aveva inciso in maniera così rilevante sulla sua psiche.

Per queste ragioni, il giudice del lavoro ha rigettato la domanda.

La redazione giuridica

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