Assoluzione piena per un medico neurochirurgo accusato del reato di omicidio colposo di una paziente: le evidenze scientifiche indicavano che anche qualora avesse tempestivamente adottato il comportamento alternativo corretto le probabilità di salvezza della paziente erano solo del 10/20%

La vicenda

La Corte d’Appello di Palermo aveva condannato un medico neurochirurgo in servizio presso un ospedale cittadino per il reato di omicidio colposo di una paziente affetta da idrocefale triventricolare.

Secondo la corte territoriale il neurochirurgo aveva sottovalutato colposamente le condizioni della paziente, nonostante avesse a disposizione gli esiti della TAC già espletata presso un altro presidio ospedaliero, e aveva omesso di sottoporla tempestivamente ad intervento di derivazione liquorale esterna, volto a ridurre la pressione intracranica mediante la fuoriuscita dal cranio del liquido cefalorachidiano, in tal modo contribuendo a determinare un danneggiamento intenso ed irreversibile del cervello della paziente, cagionandone il decesso.

La Corte di Cassazione (Quarta Sezione Penale, sentenza n. 12353/2020) ha annullato la sentenza impugnata sia agli effetti penali, essendo il reato prescritto per intervenuta prescrizione, sia agli effetti civili, con rinvio alla Corte d’Appello per l’ulteriore corso.

Il giudizio di legittimità

La Corte di merito, prescindendo dai dati medico-scientifici ricavabili dal parere degli esperti, aveva deciso sulla base di “elementi eterogenei e non conducenti, quali: la giovane età della paziente (29 anni) e l’assenza di patologie pregresse (fattori che non potevano che essere già stati considerati dai periti nell’ambito della loro complessiva valutazione del caso medico); la relativa semplicità dell’intervento di derivazione da adottare (dato inconferente rispetto alla problematica causale oggetto di rilievo); la consapevolezza dell’imputato della necessità di intervenire senza ritardo (aspetto che attiene alla colpa, ma non all’efficienza salvifica dell’intervento); il fatto che le condizioni neurologiche della donna non avessero subito un immediato tracollo al momento dell’arrivo in ospedale, ma avevano subito un progressivo peggioramento (dato che contrastava con quanto accertato dai periti, secondo cui il danno era probabilmente già irreversibile e non era stata registrata alcuna modificazione del quadro clinico della TAC eseguita in mattinata rispetto alla Risonanza Magnetica eseguita in serata).

Nella sentenza impugnata vi era poi un’affermazione palesemente illogica e inconferente, oltre che erronea: la Corte territoriale aveva sostenuto che anche una percentuale di successo dell’intervento chirurgico pari al 10/20% “avrebbe avuto una valenza certamente più promettente e rassicurante, in termini di probabilità logica e secondo un giudizio di cedibilità razionale, qualora l’imputato si fosse da subito ed adeguatamente attivato allorché aveva visitato il paziente”.

La valutazione del caso concreto

Affermazione, ad avviso della Suprema Corte, di per sé priva di significato, se si considera che quello che il giudice deve svolgere, in casi consimili, è un giudizio di “alta probabilità logica” e di “elevata credibilità razionale” fondato sulle evidenze scientifiche e su dati indiziari caratterizzanti il caso concreto, che consenta di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il comportamento omesso avrebbe salvato o prolungato la vita del paziente.

Si tratta a ben vedere – ha aggiunto il Supremo Collegio -, di motivazione che denota come la corte territoriale abbia fatto mal governo dei criteri di accertamento della riferibilità causale, in considerazione delle frequenze medio basse espresse dalla legge di copertura rassegnata dai periti.

L’errato ragionamento della Corte d’Appello

La Corte non aveva adeguatamente elaborato il giudizio di tipo induttivo, sulla base della caratterizzazione del fatto storico e delle peculiarità del caso concreto, indicato dal diritto vivente quale paradigma motivazionale imprescindibile nell’accertamento della causalità omissiva; inoltre non si era rigorosamente confrontata con le evidenze scientifiche che indicavano una bassissima probabilità di successo anche qualora l’imputato avesse adottato tempestivamente l’indicato comportamento alternativo corretto.

In quest’ottica, la corte territoriale aveva fatto sostanziale riferimento alla teoria della perdita di chance espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del medico neurochirurgo e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, sulle possibilità di successo del comportamento alternativo.

Si tratta, tuttavia, “di una valutazione che si pone in contrasto con le indicazioni ermeneutiche espresse dal diritto vivente, sul tema dell’imputazione causale dell’evento” (Cass. Sezione Quarta, n. 24372/2019).

Al riguardo la Cassazione ha ribadito che per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica, ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica, intesa come “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità della legge statistica” (Sezioni Unite, n. 30328/2002), secondo i noti principi richiamati.

In definitiva, “l’analisi sul nesso eziologico [era] stata svolta dai giudici di merito in termini erronei ed insoddisfacenti, trascurando di valutare in termini rigorosi e scientificamente accettabili i dati indiziari disponibili, al fine di verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato ragionevolmente evitato o differito con (umana) certezza (Sezioni Unite, n. 5901/2019).

Avv. Sabrina Caporale

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