Ha natura vessatoria il patto di quota lite che fissa un compenso sproporzionato per eccesso rispetto alle tariffe di mercato, al valore, alla complessità della lite e alla natura del servizio professionale

La vicenda

Un avvocato agì in giudizio contro un suo cliente al fine di ottenere il pagamento del compenso per le prestazioni professionali eseguite in suo favore, per la somma complessiva di 16.446,73 euro.

Tale somma era stata pattuita dalle parti e formalizzata in un accordo scritto che prevedeva che in caso di vittoria il cliente avrebbe dovuto corrispondere al proprio legale un compenso pari al 20% delle somme ottenute a titolo di risarcimento – oltre alle spese vive –  anche nell’ipotesi di revoca del mandato in corso di causa; mentre in caso di soccombenza avrebbe dovuto versargli soltanto un acconto di 1.000 euro.

In primo grado il Tribunale di Venezia accolse soltanto parzialmente la pretesa dell’avvocato, determinando il compenso in relazione all’attività effettivamente svolta, ossia pari a 1.872,00 euro.

La pronuncia della corte d’appello

La Corte d’Appello di Venezia confermò la decisione del primo giudice, affermando la natura vessatoria, ai sensi dell’art. 33 e 34 del codice del consumo, della clausola relativa al patto di quota lite stipulato tra le parti, “poiché essa determinava uno squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, in quanto obbligava il cliente a corrispondere la prestazione anche in caso di revoca; non stabiliva, inoltre, la ripartizione proporzionale dei compensi con il difensore subentrante e, al di là della previsione per iscritto, non chiariva se vi fosse stata una trattativa individuale per la determinazione del compenso sulla base delle aspettative di vittoria e del valore della causa”.

In altre parole, oltre alla vessatorietà della clausola, la corte di merito aveva valutato in concreto l’incongruità della clausola contrattuale, anche sotto il profilo del rapporto del compenso con il valore della causa, elemento essenziale per valutarne la sua adeguatezza, come stabilito dal legislatore con l’emanazione del D.M. 55/2014.

Ebbene la Corte di Cassazione (Seconda Sezione Civile, ordinanza n. 30837/2019) ha confermato la decisione dei giudici dell’appello.

Come noto, l’art. 2 del D.L. n. 223/2006 convertito nella L. n. 248/2006 ha disposto l’abolizione del divieto previsto dall’art. 2233 c.c., comma 3 ed ha ammesso pattuizioni, purché redatte in forma scritta, di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 25012/2014, hanno qualificato il patto di quota lite come un contratto aleatorio, in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell’esito favorevole della lite e il suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo nel quantum né, soprattutto nell’an.

La decisione

Tuttavia, secondo la Corte, “l’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l’equità: se cioè la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso a risultato, ragionevole o al contrario, sproporzionata (come nel caso di specie) per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio”.

In definitiva, il ricorso è stato rigettato e confermata in via definitiva la pronuncia di merito.

Avv. Sabrina Caporale

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