Il giudice è tenuto, anche d’ufficio, a determinare la c.d. “equa retribuzione”, mentre il lavoratore è tenuto soltanto a provare l’entità della retribuzione percepita e non l’insufficienza

La vicenda

Il ricorrente aveva convenuto in giudizio la società datrice di lavoro per sentirla condannare al pagamento della somma di 3.520,52 euro a titolo di retribuzione non percepita, oltre spese e accessori, ovvero della diversa somma ritenuta di giustizia.

In sintesi, il lavoratore lamentava di non avere ricevuto quanto di sua spettanza alla stregua del CCNL di settore per le mansioni svolte alle dipendenze della convenuta come autotrasportatore di merci di livello IVS, in regime contrattuale di full-time, non avendo ricevuto le retribuzioni di ottobre e novembre 2018, di 13^ e 14 mensilità, di indennità sostitutiva delle ferie non godute e di TFR.

A fronte di tali evidenze, la società datrice di lavoro non aveva provato o chiesto di provare il pagamento di quanto dovuto.

Invero, il datore di lavoro ha l’onere di provare di aver correttamente retribuito il lavoratore, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione alla luce di un parametro che, in mancanza di sicure altre indicazioni, non può che essere rappresentato dal CCNL di settore e dalle relative tabelle per ciascun livello in base a quanto effettivamente percepito (Cass. n. 6332 del 5/5/2001 e Cass. n. 896 del 17/1/2011).

La determinazione dell’equa retribuzione

La determinazione dell’equa retribuzione ai sensi dell’art. 36 Costituzione è correttamente effettuata alla luce dei livelli tabellari della contrattazione collettiva di settore ove le parti non abbiano fornito parametri di altra natura e muniti di sicura attendibilità (ad es. Cass n. 12872 del 16/12/95). Ciò in quanto “la retribuzione proporzionata prescritta dalla norma costituzionale è, nella normalità dei casi, quella fissata dalle parti sociali contrapposte nella contrattazione collettiva” (Cass. n. 896 del 17/1/2011). Si è anche detto che: “il contratto collettivo, in quanto norma formulata, in condizioni che garantiscono la formazione del libero consenso, dalle stesse parti che sono immerse nella realtà da disciplinare, è il più adeguato parametro per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione; è stato così osservato che questa generale oggettiva adeguatezza fa si che ove il giudice, al fine di determinare la giusta retribuzione, intenda discostarsi dal parametro della norma collettiva, ha l’onere di fornire opportuna motivazione” (Cass. n. 5519/2004).

Ne consegue che il giudice è tenuto, anche d’ufficio, a determinare la c. d. “equa retribuzione” e il lavoratore è tenuto soltanto a provare l’entità della retribuzione percepita e non l’insufficienza (Cass. n. 8095 del 4/6/2002; Cass. n. 17250 del 28/8/2004; Cass. n. 14688/2008).

In altre parole il lavoratore deve solo allegare gli estremi che consentano la valutazione della prestazione (Cass. n. 23064 del 5/11/2007).

Con la precisazione che nel concetto di “retribuzione adeguata” rientra anche la tredicesima mensilità e le mensilità aggiuntive (eccedenti la tredicesima) ove il datore di lavoro applichi, come nel caso di specie, il CCNL che le preveda (Cassazione Sezione Lavoro n. 2144 del 3 febbraio 2005, Cassazione n. 24092 del 13 novembre 2009).

Neppure va trascurato il diritto alle ferie. La Corte costituzionale (sentenza n. 95 del 6 maggio 2016) ha, infatti, chiarito che si tratta di un diritto riconosciuto a ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta, in quanto mira a reintegrare le sue energie psico-fisiche e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato “contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore” (sentenza n. 66 del 1963). La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a “una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute” (Corte di giustizia, sentenza 26 giugno 2001, in causa C-173/99, BECTU, punti 43 e 44; Grande Sezione, sentenza 24 gennaio 2012, in causa C-282/10, Dominguez).

La decisione

Ebbene, nel caso in esame, la prova del pagamento gravante sul datore di lavoro (o quella inerente l’eventuale esistenza di cause capaci di esonerare dalla relativa obbligazione contrattuale) non era stata data; perciò, il Tribunale di Roma (Sezione Lavoro, sentenza n. 2337/2020) ha condannato la società datrice di lavoro al pagamento in favore del lavoratore delle seguenti somme: trattamento di fine rapporto =Euro 226,17,tredicesima mensilità Euro = euro 261,14;quattordicesima mensilità=Euro 261,14;indennità per ferie non godute = Euro 241,05;mensilità di ottobre 2018 =Euro 1506,56;mensilità di novembre 2018 = Euro 1024,46 per un totale di Euro 3520,52, oltre rivalutazione ed interessi.

Avv. Sabrina Caporale

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