Vaccinazioni un trend in calo per quanto riguarda il trivalente. La parola a Massimo Delfino,  specialista in Medicina interna e Malattie infettive, docente presso La Sapienza-Università di Roma

Dopo la pubblicazione, da parte del Ministero della sanità, dei dati relativi alle vaccinazioni contro parotite, morbillo e rosolia, balza agli onori delle cronache il caso di una bimba di 6 anni, impossibilitata ad andare a scuola perché gran parte dei compagni non è vaccinata e lei, affetta da immunodeficienza, non può rischiare di essere contagiata.

Il Ministero della salute nei giorni scorsi, alla luce del trend in diminuzione, aveva già sottolineato come occorra: «…incrementare le coperture, anche mediante interventi mirati ad aumentare, nella popolazione, la consapevolezza dell’importanza di questa vaccinazione per la prevenzione di casi gravi e decessi e per ricostruire la fiducia dei genitori in questo vaccino, che ha un ottimo profilo di efficacia e sicurezza».

«Responsabile Civile» ha chiesto un parere al Prof. Massimo Delfino specialista in Medicina interna e Malattie infettive, docente presso La Sapienza-Università di Roma.
«Era ora che il Ministero della Salute intervenisse su tale problema, che è anche figlio della assurda frammentazione regionale sulle regole e disponibilità delle vaccinazioni. La controcultura anti-vaccinale – sottolinea Delfino- si fonda su un presupposto giusto: i vaccini possono fare male, come qualsiasi procedura sanitaria. Trascura però un’altra verità: le malattie prevenute dai vaccini fanno sicuramente enormemente  più male dei vaccini».

E aggiunge: «Mi spiego con un semplice esempio numerico. La letalità della malattia infettiva X è di 1 decesso ogni 1000 ammalati; il vaccino che previene del tutto la malattia X provoca 1 decesso su 1 milione di vaccinati. E’ evidente il vantaggio statistico e quindi sociale di vaccinarsi».

«Quando facciamo invece un ragionamento strettamente individuale – prosegue il professore – scopriamo che per il singolo la convenienza maggiore è non vaccinarsi (cioè non correre neanche il minimo rischio), ed approfittare del fatto di vivere in una comunità di vaccinati (oltre il 95 % circa), che lo tutela in quanto impedisce la circolazione della malattia X, e quindi lui non si ammala anche se non vaccinato. Insomma la scelta di non vaccinarsi (o non vaccinare il proprio figlio minore), rappresenta una palese manifestazione di individualismo estremo e sfruttamento dei comportamenti virtuosi altrui, a mio parere incompatibile con il vivere in comunità».

E nello specifico, in riferimento al caso della bambina toscana su citato commenta: «A questo porta il tollerare comportamenti individualistici. Leggendo l’articolo giornalistico di ieri, si rileva la comprensione di un dirigente scolastico per il non vaccinarsi: un dipendente pubblico, avrebbe  il dovere di insegnare le regole della convivenza sociale (una volta si chiamava educazione civica), una delle quali è vaccinarsi, esattamente come lavarsi le mani dopo essere andati al bagno e non buttare la carta per terra sul marciapiede. Cosa può insegnare ai bambini un tale atteggiamento comprensivo? La benemerita educazione civica è scomparsa dai programmi, e soprattutto dalle menti, dei dirigenti scolastici».

E conclude: «Auspico quindi interventi ancora più incisivi da parte del Ministero della Salute, fino a quelli coercitivi sui genitori e sugli insegnanti, al fine di riportare a livelli numericamente validi la percentuale di vaccinati».

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