Quando le carenze colpose della condotta del Medico rendono impossibile l’accertamento del nesso eziologico, tale deficit è rilevante ai fini della dimostrazione del nesso causale tra l’operato del medico e il danno subito dal paziente.
La massima: “In tema di responsabilità medica, ove le carenze colpose della condotta del Medico, tipicamente omissive e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, abbiano reso impossibile l’accertamento del nesso eziologico, tale deficit, non potendo logicamente riflettersi a danno della vittima, sia pur in generale onerata della dimostrazione del rapporto causale, rileva non solo in punto di accertamento della colpa ma anche al fine di ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente” (Cassazione Civile, sez. III, 11/12/2023, n.34427).
La Suprema Corte, in applicazione di tale principio, ha cassato con rinvio la sentenza di rigetto della domanda di risarcimento del danno da ritardo diagnostico e terapeutico di una neoplasia (Corte Appello Milano n. 712 del 3/3/2020), ascritto al Medico per la mancata effettuazione di un esame istologico, omissione che aveva reso impossibile accertare lo stadio della patologia e determinare se fosse possibile una terapia idonea ad evitare le conseguenze riportate dalla paziente.
Il caso clinico
La paziente veniva ricoverata in seguito a un riscontro ambulatoriale di ispessimento endometriale patologico, con polipo cervicale. Il Medico eseguiva un’isteroscopia diagnostico-operativa, con asportazione del polipo e successiva individuazione, attraverso l’introduzione di un isteroscopio, di un mioma. Durante le operazioni (siamo nell’anno 2010), si verificava una perforazione nella parete destra dell’utero per riparare la quale si effettuava una videolaparoscopia con sutura. Nel referto di dimissioni non veniva indicato l’ispessimento patologico dell’endometrio.
Il medesimo Medico, successivamente, visitava la donna per un controllo senza dare ulteriori indicazioni. Tempo dopo, la donna accusava perdite ematiche dai genitali e si sottoponeva a visita ginecologica e lo specialista la indirizzava all’ambulatorio di isteroscopia. L’esito dell’isteroscopia riportava “piccolo polipo, in uno a cavità uterina interessata da vegetazioni biancastre con vasi atipici”, con conseguenti plurime biopsie indicative per adenocarcinoma endometriale.
Seguiva intervento chirurgico di isteroannessiectomia laparoscopica con asportazione totale del colletto vaginale, linfoadenectomia e washing peritoneale. L’esame citologico aveva evidenziato cellule neoplastiche confermando l’adenocarcinoma endometriale in stadio avanzato IIIA, che aveva reso necessaria terapia coadiuvante consistente in chemioterapia, radioterapia, brachiterapia.
La vicenda giudiziaria
La paziente lamenta un ritardo diagnostico aggravato dalla perforazione che aveva permesso il passaggio di cellule endometriali già patologiche, con l’effetto di rendere necessarie le menzionate terapie invasive che, a loro volta, avevano determinato ripercussioni invalidanti, rappresentate da: astenia, neuropatia ai piedi, assottigliamento dei capelli, fenomeni flogistici cronici a carico della mucosa rettale, trombosi della vena iliaca interna sinistra, vaginite cronica con preclusione dell’attività sessuale, ansia cronica.
Il Tribunale di Milano rigettava la domanda, con pronuncia confermata dalla Corte di Appello di Milano secondo cui, in particolare, non risultava dimostrato il nesso causale tra il ritardo diagnostico, e dunque terapeutico, e le conseguenze iatrogene derivate.
In particolare, il Giudice di secondo grado osservava che era altamente improbabile che la lesione iatrogena potesse aver indotto la disseminazione delle cellule neoplastiche, posto che era stata provocata sulla parte destra dell’utero, mentre la formazione tumorale era stata localizzata in prossimità del fondo uterino, e qualora la perforazione avesse determinato un significativo passaggio di cellule si sarebbero riscontrati impianti delle stesse oltre che nell’ovaio anche nel tragitto della parete. Rilevava, inoltre, che a dieci anni dai fatti la deducente era libera da malattia e complicanze ad essa legate, sicché non poteva ipotizzarsi alcun danno da perdita di chance e che il consenso informato del Policlinico di Milano riportava correttamente i rischi da perforazione.
Il ricorso in Cassazione
La vicenda approda in Cassazione dove la donna lamenta che la Corte avrebbe errato correlando la mancanza di prova del nesso causale alla stessa condotta colposa del medico che non aveva proceduto ai necessari approfondimenti diagnostici. In connessione censura che la Corte avrebbe acriticamente avallato le conclusioni peritali che contraddittoriamente avevano affermato la carenza di elementi tecnici per accertare lo stadio tumorale al 2010 che, però, era dovuta proprio al mancato completamento in specie diagnostico isteroscopico, con cui si sarebbe potuto acquisire ogni dato istologico necessario a tal fine, mentre, in ogni caso, la mancanza della certezza in parola non implicava alcuna esclusione dell’opposta ipotesi, e non meno plausibili erano le opposte conclusioni del Consulenti di parte attorea sul punto.
Le doglianze colgono nel segno
La Corte territoriale, sebbene abbia dichiarato carente d’interesse l’appello incidentale interposto dal Ginecologo per far accertare l’insussistenza di una sua imperizia, proprio in ragione della conferma del rigetto della domanda risarcitoria per la ritenuta mancanza di prova del nesso causale, ha costruito il suo iter motivazionale muovendo dall’assunto del “già rilevato ritardo diagnostico e, dunque, terapeutico“, concludendo nel senso che “le conseguenze pregiudizievoli iatrogene lamentate dall’attrice, correlate alla “”inutile” terapia adiuvante” , di tipo fortemente invasivo, avrebbero potuto affermarsi “solo nel caso in cui al tempo dell’intervento contestato il livello della neoplasia fosse stato di stadio IA o IB”.
Ma, sempre secondo il ragionamento della Corte di Appello, poiché non vi era prova certa, o nemmeno probabilistica, di quale fosse, nel momento del primo ricovero e delle cure del Ginecologo lo stadio neoplastico, e atteso che la prova del nesso causale incombeva sul richiedente il ristoro, la conclusione doveva essere il rigetto.
In buona sostanza, i Giudici di secondo grado imputano alla paziente la mancanza di una prova derivata proprio dall’assunta colpa del medico
La conclusione è assolutamente errata. È stato affermato (in tema di incompletezza di cartella clinica) che il Giudice può e deve utilizzare – per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente – tale carenza quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno, ciò per una ragione prima logica che giuridica, oltre che per il principio di vicinanza della prova (Cass., 31/03/2016, n. 6209, Cass., 21/11/2017, n. 27561, Cass., 20/11/2020, n. 26428).
Tale principio ne sottende uno più generale, ossia quello per cui quando la mancata prova derivi dalle carenze colpose della condotta del Medico, tipicamente omissive, e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, quel deficit rileva non solo in punto di accertamento della colpa, ma anche di quello del nesso eziologico, non potendo logicamente riflettersi a danno della vittima, sia pur in generale onerata della dimostrazione del rapporto causale.
Il ragionamento della Corte di Appello non fa comprendere perché non rilevi nell’accertamento del nesso eziologico il mancato completamento dell’indagine diagnostica, che avrebbe, anche secondo le riportate ipotesi dei periti d’ufficio, potuto far acquisire i dati istologici idonei a dettagliare grado e stadio della malattia, e dunque approntare una terapia che, nella prospettiva ricostruttiva della stessa Corte territoriale, avrebbe potuto evitare le conseguenze iatrogene in discussione.
La S.C. cassa in relazione la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Milano.
Avv. Emanuela Foligno